La comunità della sofferenza.
Quando
arrivi ti stupisci delle dimensioni di tutto; l'atrio è grandissimo,
i corridoi larghissimi, la camera a due letti accogliente e luminosa,
gli armadi sono veri armadi. Non è di sicuro un ospedale ordinario.
Dove
sei lo capisci solo al primo pasto alla mensa. Anche la mensa è
grande, con vetrate a tutta parete , tavoli da sei posti, belle sedie
in acciaio cromato.
La
vedi tutta quando arrivi dal corridoio e lì ci sono cinquanta
persone mutilate, storpiate, deformi. La maggior parte è in
carrozzina; molti con il cannello dell'ossigeno nelle narici. Una
giovanissima che svolazza sorridente con un enorme gesso sulla
schiena, signore giovani anziane o vecchissime, obese, storte in
avanti, piccolissime con una gran gobba, che si appoggiano al loro
carrello tutore. Un giovanotto dalla gran testa riccioluta è posato
in carrozzina perché non ha gambe, fino al bacino.
Non
c'è allegria, non c'è tristezza ma sopratutto non c'è
rassegnazione. Se dovessi riassumere l'atteggiamento di tutti direi: determinazione.
Al
“don Gnocchi” vogliamo guarire o almeno migliorare la nostra
condizione per quanto grave sia. A quattordici anni o a
novantaquattro, qualunque sia la ferita che sopportiamo, noi vogliamo
guarire.
Io
sono tra i fortunati senza tutore, senza carrozzina e senza ossigeno.
Avanzo col mio bastone made in Moena che mi ha regalato mio nipote
Paolo e prendo posto a capotavola di un tavolo da sei.
Saluto,
rispondo alle inservienti che mi chiedono se mi va bene pasta al
pomodoro o preferisco i tortellini; di secondo c'è un filetto di
merluzzo con un contorno tra purè, patate, spinaci, insalata. Il
cibo è buono. Si mangia, io in silenzio ma gli altri, che si
conoscono già, parlando di palestra, orari, infermieri .
Ordinatamente, senza allegria, senza tristezza. Cortesemente, senza
lamenti, senza recriminazioni. Siamo qui per migliorare e perdio
miglioreremo. Cominciano ventotto giorni come in convento.