domenica 22 marzo 2015

Ritorno a casa



La comunità della sofferenza.


Quando arrivi ti stupisci delle dimensioni di tutto; l'atrio è grandissimo, i corridoi larghissimi, la camera a due letti accogliente e luminosa, gli armadi sono veri armadi. Non è di sicuro un ospedale ordinario.
Dove sei lo capisci solo al primo pasto alla mensa. Anche la mensa è grande, con vetrate a tutta parete , tavoli da sei posti, belle sedie in acciaio cromato.
La vedi tutta quando arrivi dal corridoio e lì ci sono cinquanta persone mutilate, storpiate, deformi. La maggior parte è in carrozzina; molti con il cannello dell'ossigeno nelle narici. Una giovanissima che svolazza sorridente con un enorme gesso sulla schiena, signore giovani anziane o vecchissime, obese, storte in avanti, piccolissime con una gran gobba, che si appoggiano al loro carrello tutore. Un giovanotto dalla gran testa riccioluta è posato in carrozzina perché non ha gambe, fino al bacino.
Non c'è allegria, non c'è tristezza ma sopratutto non c'è rassegnazione. Se dovessi riassumere l'atteggiamento di tutti direi: determinazione.
Al “don Gnocchi” vogliamo guarire o almeno migliorare la nostra condizione per quanto grave sia. A quattordici anni o a novantaquattro, qualunque sia la ferita che sopportiamo, noi vogliamo guarire.
Io sono tra i fortunati senza tutore, senza carrozzina e senza ossigeno. Avanzo col mio bastone made in Moena che mi ha regalato mio nipote Paolo e prendo posto a capotavola di un tavolo da sei.

Saluto, rispondo alle inservienti che mi chiedono se mi va bene pasta al pomodoro o preferisco i tortellini; di secondo c'è un filetto di merluzzo con un contorno tra purè, patate, spinaci, insalata. Il cibo è buono. Si mangia, io in silenzio ma gli altri, che si conoscono già, parlando di palestra, orari, infermieri . Ordinatamente, senza allegria, senza tristezza. Cortesemente, senza lamenti, senza recriminazioni. Siamo qui per migliorare e perdio miglioreremo. Cominciano ventotto giorni come in convento.